La storia di Fiera

LA STORIA di FIERA

 

LE ORIGINI

Il Sile, un fiume breve, ma singolare e affascinante… Nasce in pianura; si ingrossa rapidamente, alimentato dalle moltissime polle d’acqua, limpida e freschissima; ha una portata idrica a regime costante; si snoda attraverso una fertile e verde campagna, compiendo un percorso tortuosissimo; infine, col suo alveo naturale, sfocia in Laguna, proprio di fronte a Torcello.

A questo fiume, Treviso e molti paesi, compresa Fiera, devono la loro origine e la loro vita in tanti secoli di storia. Già all’età del bronzo, cioè oltre mille anni prima di Cristo, esistevano stanziamenti umani lungo le sue sponde. Reperti archeologici risalenti a quell’epoca sono stati rinvenuti anche a Fiera, oltre che a Treviso, a Sant’Antonino, a Casier, a Silea. Ossa umane e di animali, oggetti di bronzo, cocci di vasi di terracotta, frammenti di armi di selce, trovati dagli esperti, dimostrano quanto sia antico il legame che ci unisce al nostro fiume[1].

Il fiume Sile a Fiera – Treviso

Un tempo il Sile era navigabile dalle sorgenti alla foce e costituiva la naturale via di comunicazione e di commercio dapprima fra Treviso e l’antica Altino e successivamente, dopo il declino di questa fiorente città romana, fra Treviso e le isole della Laguna Veneta. Da Treviso partivano vari tipi di vino, il macinato dei suoi numerosi mulini, prodotti dell’artigianato locale e una grande quantità di legname, soprattutto i roveri del Montello. Invece dalla Laguna arrivavano riso, sale, pietra d’Istria e, in seguito ai contatti di Venezia con l’Oriente, spezie, tessuti e prodotti dell’arte vetraria.

Le imbarcazioni risalivano il fiume trainate da cavalli o da altri animali che correvano sull’argine, lungo un viottolo ben battuto, chiamato Restera. Questo nome, in uso fin dal Medioevo, deriva dalla grossa fune, detta resta, che univa l’animale al barcone rimorchiato[2]. Al 1226 risale una disposizione del Podestà di Treviso, dal titolo De Restera Syleris[3]. Essa stabiliva che la Restera fosse sempre tenuta in ordine, in modo che vi si potesse passare con la resta senza incontrare ostacoli.

Il traffico fluviale faceva ovviamente capo ad un porto, dotato delle attrezzature necessarie all’ormeggio delle imbarcazioni, alla loro riparazione, al carico e allo scarico delle merci.

In seguito ai frequenti scambi commerciali che avvenivano nel porto, si era formato nelle sue vicinanze un vero e proprio mercato annuale che, verso la fine del XII secolo, inizia a comparire nei documenti col nome di San Michele[4]. È dunque nel porto e nell’antico mercato di Treviso, sorti sulla sponda sinistra del Sile, che si devono vedere gli albori della storia di Sant’Ambrogio di Fiera.

Un primo accenno a quel porto e a quel mercato è contenuto – secondo alcuni studiosi – nientemeno che in un diploma di Berengario I, scritto nel lontanissimo 905 e conservato nell’Archivio Vescovile di Treviso; in questo documento si parla infatti del mercatus de Portu Tarvisino.[5].

Data la sua particolare posizione, il nucleo primitivo della località di Fiera veniva chiamato semplicemente Porto. Ne troviamo conferma in alcune pergamene, scritte tra la fine dell’undicesimo secolo e l’inizio del tredicesimo[6]. La più antica risale al 1098 e parla di un certo Adamo “filius Bonifacii de loco Porto”. Si tratta di un atto notarile da cui risulta che una vedova e suo figlio ricevono da Adamo “otto libbre veronesi”, per la vendita di una casa di loro proprietà, situata a Treviso, in località Cornarotta. In un’altra pergamena, scritta nel 1102, si nota che lo stesso Adamo di Porto, che quattro anni prima aveva acquistato quella casa, ora, assieme alla moglie Albiza, la rivende ad un certo Bernardo di Treviso[7].

A queste due antichissime pergamene ne seguono altre quattro a distanza di circa un secolo; due di esse risalgono al 1189, una al 1190 e l’ultima al 1208. Ecco in sintesi il loro contenuto:

– 1189, 13 gennaio: Giovanni di Porto, notaio, è presente come testimone ad un atto di donazione a favore del Capitolo trevigiano.

– 1189: Vitale di Porto, notaio, registra la deposizione di un certo Bastiano, con cui viene riconosciuta una proprietà dei canonici di Treviso.

– 1190, 17 (?) febbraio: Giovanni di Porto e suo fratello Graulo si riconciliano con Albrigeto che aveva mosso causa contro di loro.

– 1208, 21 dicembre: Pietro di Porto figura tra i numerosi testimoni della pace fra Treviso, Vicenza e Verona, conclusa alla presenza del Consiglio del Comune di Treviso.

Il fatto che due delle persone citate esercitassero la professione di notaio fa pensare che a quel tempo non tutti gli abitanti di Porto fossero pescatori, barcaioli, scaricatori di merci, carpentieri e calafati[8]. La felice posizione del luogo doveva offrire buona ospitalità anche ad altre categorie di lavoratori, non esclusi i funzionari pubblici.

Le principali caratteristiche dell’ambiente erano quelle stesse che più o meno ancor oggi si possono osservare: vicinanza alla città, fertilità del terreno, ricchezza di vegetazione e abbondanza di acque che potevano essere sfruttate come forza motrice per mulini e frantoi. Si trattava dunque di un ambiente dove agricoltori, boscaioli, mugnai, artigiani e allevatori di bestiame potevano trovare sicure possibilità di lavoro. A proposito di allevatori, l’Agnoletti scrive che nel Duecento il musile di Porto, cioè il vasto prato vicino al Sile dove si teneva la Fiera, era un luogo di pascolo per cavalli[9].

Non si deve dimenticare, infine, che il territorio di Porto era attraversato da una strada di grande traffico: la Callalta, che da Treviso portava a Oderzo. Nel Medioevo questa strada, fiancheggiata da fitti boschi, era fra le più importanti della regione, ma la sua origine risaliva addirittura all’epoca romana[10].

 

LA CHIESA DI “SANT’AMBROGIO DI PORTO”

Si è visto che il primo nucleo di Fiera si formò nelle vicinanze di Treviso in un luogo particolarmente favorevole: tra la Callalta e il Sile, presso un porto molto attivo e un mercato annuale destinato ad un rapido successo. Un momento fondamentale per il suo sviluppo e la sua storia è rappresentato dalla comparsa della chiesa, fatta erigere dal Vescovo di Treviso e dedicata a Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano.

Sorta nella località di Porto, la chiesa prese quindi il nome di Sant’Ambrogio di Porto, come risulta dai più antichi documenti oggi conosciuti. Naturalmente tale denominazione si estese poi all’intera borgata.

Actum in Ecclesia Sancti Ambrosii de Portu”: è questo il primo documento che prova l’esistenza dell’antica chiesa di Fiera; esso porta la data del 27 agosto 1179[11].

Ci troviamo al tempo epico e drammatico della lotta dei Comuni contro l’imperatore Federico Barbarossa. Pochi anni prima del 1179, in seguito alla distruzione di Milano, si era costituita la famosa Lega Lombarda, a cui aveva aderito anche Treviso, incoraggiata dal suo Vescovo, Olderico III[12]. La violenta guerra combattuta fra i Comuni e l’Imperatore culminò nel 1176 con la clamorosa sconfitta del Barbarossa nella battaglia di Legnano. Questa era l’epoca storica in cui probabilmente cominciò a formarsi la comunità cristiana di Sant’Ambrogio di Fiera.

L’importante documento del 1179 è un atto di donazione. Esso ci permette di sapere che in quell’anno il sacerdote Vidone, rettore della chiesa di Sant’Ambrogio, in rappresentanza dell’Ordine di Malta, noto allora col nome di San Giovanni dell’Ospedale, ricevette dal conte Manfredo Collalto un terreno situato in località Tiveron (l’attuale Santa Cristina).

In un altro documento, redatto nel 1218, si accenna alla vendita di un piccolo pezzo di terra, posto nel luogo detto “territorium porti apud Sanctum Ambrosium” (“territorio del porto presso Sant’Ambrogio”)[13].

Un più ampio riferimento alla chiesa si trova in una ricevuta di pagamento, rilasciata il 22 aprile 1294 dal vescovo Tolberto Calza. Questi dichiara di aver riscosso da frate Wilelmo Borgaresio una certa somma “pro Ecclesia et logo Sancti Ambrosii de Portu[14]. Come si vedrà più avanti, l’Ordine di Malta, a cui la chiesa era stata concessa, doveva pagare ogni anno un canone di affitto al Vescovo di Treviso.

In un’antica cronaca trevigiana, scritta da un anonimo del XV secolo indicato con l’appellativo di Anonimo Foscariniano, è contenuto un nuovo accenno a Sant’Ambrogio di Porto. La borgata è citata in rapporto alla drammatica situazione in cui Treviso venne a trovarsi nel 1236. Narra il Cronista che la città era minacciata dall’arrivo delle milizie dell’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa, anch’egli in lotta contro i Comuni. Di fronte a questo grave pericolo i Trevigiani lavorarono giorno e notte, instancabilmente, per potenziare le difese della città. Con l’aiuto della gente dei borghi vicini, riuscirono a scavare un lunghissimo fossato, con un alto e solido argine interno, che partiva dal Sile, presso il borgo dei Santi Quaranta, e arrivava “fino a S. Ambruoso de Porto, sopra el Sil”. Quando poi giunse l’esercito dell’Imperatore, allagarono tutta la campagna, riuscendo così ad arrestare la sua avanzata[15].

 

LA CHIESA DI FIERA NEL TRECENTO E LA “TORRE DI SANT’AMBROGIO”

Un maggior numero di notizie sulla chiesa le possiamo trovare nel Trecento. La fonte principale è costituita dalla nutrita serie di disposizioni che il Comune di Treviso emanava in occasione delle Fiere di San Michele, che in quel secolo vivevano forse il loro momento più glorioso.

Leggendo i lunghi documenti scritti negli anni 1317, 1340 e 1344 spesso ci si imbatte nell’espressione ecclesia Sancti Ambrosii, oppure in un’altra simile: prèsbiter Sancti Ambrosii[16]. Nella maggioranza dei casi si cita la chiesa per indicare la posizione degli spazi assegnati ai commercianti sul Prato della Fiera. Ecco un esempio: “Ruga Cavateriorum fit quasi prope ecclesiam Sancti Ambrosii” (“La corsia dei ciabattini si trova vicino alla chiesa di Sant’Ambrogio”). Ma può anche capitare che si incontrino dei particolari veramente interessanti. Si legge infatti che al prete di Sant’Ambrogio il Comune chiedeva di tenere nella sua stalla i cavalli del Podestà e dei suoi servitori, per tutto il tempo in cui costoro si trattenevano alle Fiere, e di procurare che le campane della chiesa suonassero le ore del giorno e della notte. Veniamo così a sapere che anche nel Medioevo il prete di Fiera abitava presso la chiesa, in una canonica provvista di stalla che doveva essere di discrete dimensioni, visto che poteva ospitare diversi cavalli.

Nella seconda metà del Trecento esisteva a Fiera una torre detta di Sant’Ambrogio, che si trovava sulla sponda del Sile, davanti al grande Prato[17]. Era stata costruita, come tante altre, dal Signore di Padova, Francesco da Carrara, il quale, mosso da ambiziose mire espansionistiche, voleva conquistare con ogni mezzo il territorio trevigiano.

Negli anni fra il 1380 e il 1384 egli portò la guerra fin sotto le mura della città, causando non pochi danni alla borgata di Fiera. La Torre di Sant’Ambrogio, la cui funzione era quella di bloccare le comunicazioni con Venezia, venne a trovarsi più volte al centro di gravi combattimenti che favorirono l’avanzata del Carrarese. Questi, nel 1384, poté finalmente ottenere la sospirata città e il territorio trevigiano. Ma il suo dominio, fondato sulla disonestà e sul dispotismo, ebbe breve durata, poiché solo quattro anni più tardi Treviso ritornò definitivamente sotto il desiderato governo della Repubblica di San Marco.

Intanto Fiera conservava un pessimo ricordo dell’“iniquo Padovano”, il quale, oltre a tutti i guai causati, le aveva anche rubato una campana della chiesa, per metterla nella torre principale del suo castello di Treviso e usarla per dare i segnali d’allarme. Questa curiosa notizia ci viene fornita da una lettera-ducale, inviata al Podestà di Treviso nel 1394, in cui si leggono le seguenti parole, tradotte dal latino: “Abbiamo udito e compreso l’informazione che ci hai scritto riguardo alla campana presa dalla chiesa di Sant’Ambrogio del nostro territorio trevigiano, ancora al tempo di Francesco da Carrara il Vecchio, e posta nel nostro castello di Treviso per ordine di quel Signore Francesco”[18].

Probabilmente al Senato di Venezia era stata presentata la richiesta che la campana rubata fosse restituita al suo legittimo proprietario.

 

I CAVALIERI GEROSOLIMITANI

Come già sappiamo, la chiesa di Sant’Ambrogio venne fatta costruire dal Vescovo di Treviso, il quale la concesse poi in affitto all’Ordine di Malta, dietro pagamento di un canone annuo.

L’Ordine di Malta era sorto al tempo della prima crociata (fine del sec. XI) con il preciso scopo di offrire soccorso e ricovero ai pellegrini di Terrasanta. In origine i suoi membri si chiamavano Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme o anche Gerosolimitani. Più tardi, nel 1310, presero il nome di Cavalieri di Rodi e infine, nel 1530, quello di Cavalieri di Malta, nome che conservano tuttora.

È probabile che costoro, nella seconda metà del secolo XII, abbiano scelto di fissare la loro sede di Treviso presso la chiesa di Sant’Ambrogio proprio perché questa si trovava nel luogo del porto, dov’era lo scalo delle barche dirette o provenienti da Venezia. Quindi per Fiera passavano quei pellegrini che, discendendo il corso del Sile, raggiungevano la Laguna Veneta dove potevano imbarcarsi per l’Oriente.

Per poter raggiungere le finalità del loro Ordine, i Gerosolimitani fecero sorgere accanto alla chiesa un ospizio, in cui potevano essere alloggiati e assistiti i confratelli dell’Ordine e coloro che si erano messi in viaggio verso i Luoghi Santi o che da essi facevano ritorno.

Nella prima metà del Duecento i Cavalieri decisero di trasferire la loro sede entro le nuove mura della città, erette tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII. Lo fecero probabilmente per ragioni di sicurezza. Infatti in quell’epoca Treviso, che si stava affermando come libero comune, si trovava spesso in lotta contro l’Imperatore o contro i comuni vicini. Si stabilirono a poca distanza dalla Porta di Santa Maria Maggiore, dove edificarono una chiesa che dedicarono a San Giovanni Battista, loro patrono. Nei primi tempi la nuova chiesa veniva chiamata San Giovanni dell’Ospedale, a motivo dell’ospizio costruito accanto ad essa; ma intorno alla metà del Trecento quella denominazione si trasformò in San Giovanni del Tempio.

Pur cambiando sede, i Gerosolimitani conservarono ugualmente tutti i diritti giuridici e pastorali sulla chiesa e l’ospizio di Sant’Ambrogio di Porto[19]. Il servizio religioso e assistenziale continuarono a svolgerlo attraverso un sacerdote, certamente un loro confratello, che dimorava stabilmente presso la chiesa. Inoltre nei confronti del Vescovo di Treviso mantennero l’impegno di pagare un canone annuo, come dimostra il già citato documento del 1294.

 

LA COMMENDA DI SAN GIOVANNI DEL TEMPIO

Per effetto dei privilegi collegati all’Ordine di Malta e dei benefici ecclesiastici acquisiti, la chiesa di San Giovanni del Tempio divenne sede di una Commenda[20] e il suo superiore assunse il titolo di Priore o Commendatario. Essa raggiunse quindi una notevole importanza, mentre la più antica chiesa di Sant’Ambrogio rimaneva una semplice cappella, priva di autonomia e della cosiddetta cura d’anime; ciò significa che vi si potevano celebrare solo la Santa Messa e le funzioni sacre più comuni. Per l’amministrazione dei Sacramenti la gente di Fiera doveva recarsi invece a San Giovanni del Tempio oppure nelle chiese di Santa Sofia e di San Tommaso, che si trovavano appena fuori delle mura cittadine[21].

Il prete di Sant’Ambrogio dipendeva direttamente dalla Commenda di San Giovanni del Tempio e perciò non poteva godere del beneficio derivante dai beni materiali e finanziari della chiesa. Tale beneficio rientrava nel patrimonio della Commenda, che veniva amministrato secondo criteri più o meno equi. Si trattava di un patrimonio in continuo aumento, che finì col destare la cupidigia delle più nobili famiglie di Venezia. Infatti, a partire dalla prima metà del Quattrocento, la carica di priore dell’ormai ricca Commenda di San Giovanni del Tempio venne ricoperta da patrizi veneziani, primo fra tutti un Morosini, poi un Marcello e un Vendramin. Quindi, verso la fine del Cinquecento, l’Ordine di Malta cedette la Commenda alla famiglia Corner (o Cornaro) per il prezzo di trentunmila ducati. Ai Corner subentrarono i Mocenigo che conservarono la Commenda fino alla sua soppressione, avvenuta all’inizio dell’epoca napoleonica[22].

Nei primi anni del 1500 il priore Ludovico Marcello, trovando la chiesa di San Giovanni del Tempio inadeguata al prestigio e alla potenza della Commenda, decise di abbatterla per costruirne un’altra più ricca. La nuova chiesa venne ultimata nel 1508 e sulla facciata egli fece collocare una lapide recante il suo nome. Questo priore, amante della cultura, dello sfarzo, del prestigio personale e inoltre attaccato al denaro, come scrive il Biscaro[23], non poteva certo riservare molte attenzioni all’umile chiesa di Sant’Ambrogio, la quale proprio in quegli anni conobbe il momento più oscuro della sua storia.

 

LE MURA VENEZIANE

Nel 1509, cioè l’anno seguente la ricostruzione della chiesa di San Giovanni del Tempio, si verificò un avvenimento destinato a segnare una traccia profonda nella città di Treviso e, di conseguenza, nella vita di Fiera.

La Repubblica Veneta si trovava impegnata nella difficile guerra contro le potenze della Lega di Cambrai (Francia, Spagna, Stato Pontificio e Impero). Già dal 1388 il destino di Treviso era definitivamente legato a quello di Venezia: la salvezza dell’una dipendeva quindi dalla salvezza dell’altra. Per questo, di fronte alla minaccia degli eserciti nemici che ormai assediavano Padova[24], il Senato Veneto ordinò di fortificare la città di Treviso secondo i nuovi criteri difensivi che si stavano affermando in quell’epoca. Il difficile compito venne affidato al noto architetto e ingegnere Fra’ Giocondo da Verona. Questi, avvalendosi delle sue esperienze nel campo dell’architettura fortificatoria e dell’idraulica, elaborò un progetto così ingegnoso che avrebbe trasformato Treviso in una fortezza inespugnabile. Naturalmente, nel breve tempo a disposizione, si poterono eseguire solo i lavori più urgenti, con il concorso di tutta la popolazione. Per prima cosa, secondo gli ordini del governo veneziano e di Fra’ Giocondo, venne raso al suolo tutto ciò che si trovava lungo il perimetro della nuova cinta muraria, per una larghezza di cinquecento passi[25]: case, chiese e conventi, vegetazione. Nulla fu risparmiato di quello che poteva ostacolare le opere di difesa o servire da riparo al nemico. Venne compiuta, cioè, quella che fu definita la spianata. Le poderose mura veneziane, portate a termine negli anni successivi da Bartolomeo d’Alviano, chiusero quasi letteralmente la città, riducendo a tre le numerose porte medievali. Il collegamento con l’esterno era assicurato soltanto dalle porte di San Tommaso, dei Santi Quaranta e Altinia.

Pesanti furono per Fiera le conseguenze causate dagli eventi del 1509. Innanzitutto essa rimase «tagliata fuori» dalla città, perché le nuove mura eliminarono la Porta di Santa Maria Maggiore. La più vicina apertura che permetteva alla gente di Fiera di entrare in città era costituita da uno stretto passaggio lasciato sulla riva sinistra del Sile presso la Tolpada, nel punto ora denominato Barriera Garibaldi[26]. A quella piccola porta, detta quindi Portello e adibita solo al transito dei pedoni, si giungeva da Fiera percorrendo la Restera.

L’improvviso isolamento in cui venne a trovarsi la località di Fiera determinò l’abbandono della chiesa da parte dei Cavalieri di San Giovanni del Tempio. A poco a poco essa acquistò un aspetto desolante: tutt’intorno crebbero erbacce e rovi, mentre l’edificio si deteriorava progressivamente. Rimasti privi del loro luogo di culto, gli abitanti non potevano neppure recarsi nelle chiese che prima erano facilmente raggiungibili. La chiesa di San Giovanni del Tempio era ormai «chiusa» entro il nuovo sistema difensivo; quella di San Tommaso, situata fuori della cinta medievale, era stata incorporata nel nucleo cittadino; infine la chiesa di Santa Sofia, che per sua sfortuna si trovava nella fascia lungo la quale dovevano correre le nuove mura, dovette essere abbattuta. C’è da aggiungere che alcune famiglie appartenenti al borgo di Santa Maria Maggiore videro distrutte le loro abitazioni a causa della spianata e, non potendo trasferirsi all’interno della città, furono costrette ad unirsi alla gente di Fiera.

I rappresentanti di quelle famiglie, assieme ad un gruppo di uomini di Fiera, si recarono dal priore Ludovico Marcello ad esporgli la grave situazione che si era venuta a creare. Da lui ottennero allora la riapertura della chiesa di Sant’Ambrogio e la possibilità da parte della popolazione di scegliere un sacerdote che potesse fungere da curato, a condizione però che la scelta venisse poi confermata dalla Commenda. Questa importante concessione era subordinata al pagamento di un canone annuo di due ducati, al versamento di oltre la metà dei proventi dei funerali e all’obbligo, per il curato, di recarsi nella chiesa di San Giovanni del Tempio in particolari giorni dell’anno per celebrarvi la messa e per assistere alle solenni funzioni[27].

Fiera riebbe così la sua chiesa che, se per il momento era ancora “rovinata e piena di rovi”, aveva tuttavia il potere di esercitare d’ora in avanti quella cura d’anime che prima non le era consentita. Questo avvenimento determinò in pratica la nascita della Parrocchia di Sant’Ambrogio di Fiera. Un certo entusiasmo avrà indubbiamente accompagnato gli abitanti nei lavori di sistemazione e di restauro della chiesa, che dovevano conferirle quel decoro e quella dignità che le erano dovuti.

 

LA VISITA PASTORALE DI GIORGIO CORNARO

Giovedì 9 settembre 1568: forse per la prima volta da quando ha ottenuto una certa autonomia dalla Commenda di San Giovanni del Tempio, la chiesa di Fiera viene visitata dal Vescovo di Treviso[28].

Il Vescovo è Giorgio Cornaro, nobile veneziano, divenuto pastore della Chiesa trevigiana l’anno seguente la chiusura del Concilio di Trento (1563), a cui aveva preso parte in forma personale e attiva.

Entrato nella chiesa, egli si porta all’altare del SS.mo Sacramento, dove si ferma qualche attimo in adorazione. Quindi inizia il consueto controllo per accertare che tutto si trovi nell’ordine stabilito dalle sacre Costituzioni. Nel corso di questa specie di ispezione viene registrata la presenza del fonte battesimale “di pietra con catino di bronzo” e di un gonfalone con l’effigie di Sant’Ambrogio.

Terminata la visita alla chiesa, il Vescovo interroga alcune persone per conoscere la situazione della “parrocchia”. Ovviamente il primo ad essere interpellato è il prete di Fiera, Giuseppe de Camillis, che dice testualmente: “La chiesa ha titolo di Santo Ambrosio et è sotto la cura (giurisdizione), per quanto ho inteso, di S. Zuanne (Giovanni) del Tempio di Treviso, la quale per comodità è stata fatta curata[29], et gli oli (Oli Santi) si vanno a tuor a Treviso alla chiesa catedral, et di essa è rettore il Signor Cavallier Rimondo, perché è unita alla sua Commenda; la chiesa non ha entrata nessuna perché le entrate sono del priorado, per quanto credo (…). Et il prete non ha niente, et vive de elemosine che gli da la villa (borgata) la quale lo elegge e il suddetto Cavallier lo confirma in voce (…)”. Il prete aggiunge poi che “vi sono nella parochia[30] anime da comunione n° 400 et più”. Grazie a questo dato si può calcolare che in quell’anno gli abitanti di Fiera fossero circa seicento, come scrive l’Agnoletti[31].

Ascoltato Giuseppe de Camillis, il vescovo Cornaro interroga altre persone del luogo. Da loro viene a sapere che in parrocchia non vi sono scandali e che il prete si comporta bene, svolge il suo ministero con diligenza e visita gli infermi. Particolarmente utile e interessante risulta la deposizione di un tale che dichiara: “Questa chiesa è stata fatta curata da mio ricordo, et era rovinata et piena de rove et di spini, et la facessimo governar (pulire, riordinare), perché dopo quando se fece la spianada stavimo per i guasti (ci trovavamo in difficoltà) et se reducessimo qua et domandassimo questa giesia (chiesa) ai Cavallieri de S. Zuanne del Tempio, et ne la concesse; della quale paghemo dui ducati di fitto all’anno, et se l’havemo conzada (restaurata), et tegnimo un Capellan ammovibile (che può essere trasferito in altra sede); et mo che l’havemo conzada ne menazza (ci minacciano) di volernela tuor et serrar…”. Non si sa né si può immaginare perché la Commenda minacciasse la gente di Fiera di riprendersi la chiesa, cosa che non risulta sia stata poi fatta.

Di questa importante visita pastorale ciò che presenta maggior interesse sono senza dubbio le due testimonianze, pronunciate e trascritte in lingua volgare. Risulta evidente la differenza tra il linguaggio del sacerdote, più curato e preciso, e il linguaggio dell’abitante di Fiera, certamente meno chiaro, ma forse più immediato ed efficace.

Le due testimonianze non sono interessanti solo dal punto di vista linguistico, ma soprattutto per le numerose notizie che esse forniscono: notizie indispensabili alla conoscenza della situazione della chiesa e della località di Fiera nel secolo sedicesimo.

 

LE MONACHE AGOSTINIANE

È stata più volte registrata nel Cinquecento la presenza a Fiera di Monache Agostiniane, le quali avevano la loro residenza presso la chiesa di Sant’Ambrogio.

Il loro Ordine esisteva a Treviso almeno dal 1223. Inizialmente esse risiedevano in un piccolo monastero di San Zeno. Più tardi si trasferirono in città, sulla riva destra del Sile, all’interno delle mura medievali. Qui fondarono il monastero di San Paolo, oggi occupato dal Distretto Militare. Però nel 1297 dovettero abbandonare la nuova sede a causa delle liti scoppiate con i Frati Eremitani che vivevano nel monastero adiacente[32].

Verso la fine del Trecento incontriamo nuovamente le Agostiniane nel convento di Santa Maria Mater Domini, situato nel borgo dei Santi Quaranta, dove rimarranno solo fino al 1447[33].

Finalmente, nel 1520, le monache fanno la loro comparsa a Fiera. Desiderando stabilirsi vicino alla chiesa di Sant’Ambrogio, si presentano al priore di San Giovanni del Tempio, il già noto Ludovico Marcello, e gli chiedono di poter occupare un piccolo spazio. Il vecchio e astuto priore dapprima si fa pregare e poi cede alla loro richiesta, ponendo però delle condizioni piuttosto pesanti. Per il primo anno esse devono procurargli cento tavole, necessarie alla costruzione del nuovo ospizio della Commenda, e pagare il salario dei falegnami incaricati di fabbricare un certo numero di letti per lo stesso ospizio. In seguito avranno l’obbligo di portare annualmente alla Commenda “una giovenca” e “due paia di capponi”[34].

Pochi anni dopo, la presenza delle Agostiniane a Fiera viene confermata da una lettera scritta il 23 aprile 1523 dal vicario generale Ottaviano di Castelbolognese, contenente questa bella espressione di saluto: “Alla nostra sorella Angela, diletta in Cristo, superiora delle suore che abitano presso la chiesa di Sant’Ambrogio vicino a Treviso, di fronte al Prato dove si celebrano le Fiere: salute nel Signore!”[35].

Due anni più tardi, il 15 agosto 1525, il nuovo priore di San Giovanni del Tempio, Andrea Vendramin, rinnova alle monache di Fiera il contratto di affitto del luogo da esse occupato[36].

Secondo l’Agnoletti, le Agostiniane risultano presenti a Fiera anche nel 1544 e nel 1552[37]. Poi di loro non si sa più nulla.

 

UNA MAPPA DEL XVII SECOLO

Nell’Archivio Vescovile di Treviso è conservata un’interessante mappa a colori, che riproduce il Prato della Fiera così come si presentava nella seconda metà del Seicento[38]. Non vi figurano certo tutti i particolari allora esistenti, ma si può notare che non manca nessuno degli elementi che hanno sempre caratterizzato il nucleo più antico della località di Fiera: il Prato, il Fiume, il Porto e la Chiesa.

Il grande Prato è quasi interamente racchiuso entro un’ampia ansa del Sile. Le tre barche disegnate sul fiume e la parola squero scritta in corrispondenza di una di esse sono un chiaro riferimento al porto. Infatti nello squero venivano riparate e talvolta anche costruite le imbarcazioni, grandi e piccole, che navigavano lungo il fiume. Tipico barcone del Sile era il burchio e quindi burchieri venivano chiamati i barcaioli che per mestiere trasportavano le merci e le persone fino a Venezia. I burchieri di Fiera, come d’altra parte quelli della città, erano riuniti in una corporazione, detta scuola, che aveva il suo statuto, il suo gastaldo[39] e il suo stendardo o gonfalone. Un tempo nella chiesa attuale, accanto all’altare della Madonna, esisteva questa scritta significativa: “Schuola di Burchieri di 25 (membri?). Serve la Serenissima Signoria; fu sotto la gastaldia (di) Andrea Gasparon”[40].

Osservando la mappa si può avere una dimostrazione di come il Prato della Fiera abbia sempre condizionato lo sviluppo urbanistico della borgata. Quasi tutte le case appaiono distribuite lungo il suo perimetro, rispettando in tal modo la sua importante e antichissima funzione. Certamente nel Seicento c’erano molti più edifici di quanti se ne vedono nella mappa: ce ne dovevano essere soprattutto in riva al Sile. Ma il compito del disegnatore, come si può dedurre dalla legenda scritta in alto a destra, era quello di occuparsi particolarmente delle proprietà della Commenda di San Giovanni del Tempio. In quell’epoca la Commenda apparteneva alla potente famiglia Cornaro di Venezia, che a Fiera possedeva numerose case, terreni e, naturalmente, la stessa chiesa.

Da quanto mi risulta, la mappa è l’unico documento che contenga una rappresentazione grafica dell’antica chiesa di Fiera. Per la verità il disegnino ci fa vedere ben poco; ma per lo meno esso ci dà la prova che la chiesa primitiva si trovava nella stessa posizione di quella attuale.

Alcuni atti delle visite pastorali ci permettono di sapere che quando venne eseguita la mappa, cioè nel 1673, nella chiesa di Sant’Ambrogio si trovavano tre altari e il fonte battesimale che oltre cent’anni prima era stato visto dal vescovo Cornaro.

All’altar maggiore c’era la bella pala dipinta da Bartolomeo Orioli nel 1610, riproducente i Santi protettori della Parrocchia: Sant’Ambrogio, San Giovanni Battista e San Luca, tutti e tre in stretto rapporto con la storia di Fiera. Il primo, come Santo titolare, ricordava l’origine della chiesa; il secondo indicava la sua appartenenza alla Commenda di San Giovanni del Tempio; il terzo simboleggiava il grande mercato annuale a cui l’Evangelista aveva dato il proprio nome, soppiantando, per motivi che vedremo in seguito, quello originario di San Michele. Per la sua qualità artistica, ma soprattutto per questo suo carattere storico, la tela dell’Orioli sarebbe rimasta per sempre il dipinto più importante non solo della vecchia chiesa, ma anche di quella attuale.

Gli altri due altari erano dedicati uno alla “Beata Vergine del Rosario” e l’altro a San Rocco.

Anche l’altare della Madonna aveva la sua pala, passata poi alla nuova chiesa: una tela piuttosto antica, formata stranamente da due parti diverse. La parte inferiore, che rappresenta la Madonna del Rosario col Bambino e tre Santi, risale alla metà del Cinquecento, mentre quella superiore è più tarda di mezzo secolo e raffigura la SS.ma Trinità. L’altare della Vergine era detto anche della Concordia, perché simboleggiava l’unione dei tre colmelli[41] che formavano la Parrocchia: Fiera, Porto e Villapendola, distinzione, questa, che permane tuttora. Fiera indica particolarmente il luogo della chiesa e del Prato, Porto la borgata attraversata dal fiumicello Storga e Villapendola la località compresa tra il vecchio ramo del Sile e il Comune di Silea. Se di Porto si parla già nel 1098, il nome di Villapendola (Villa Pendula) compare fin dal 1170, un’epoca ugualmente molto remota[42].

Il terzo altare della chiesa era dedicato, come si è detto, a San Rocco[43]. Non sappiamo se su questo altare ci fosse un’altra tela oppure una statua del Santo, poiché di esso non è rimasta alcuna traccia.

È interessante notare, in riferimento a questo Santo, che a Fiera esiste ancora una modesta casa a due piani con la facciata decorata da tre affreschi. Ebbene, in quello centrale venne dipinto San Rocco assieme alla Madonna e a San Sebastiano. Gli affreschi risalgono all’inizio del Seicento e dovevano essere di buona qualità, perché di essi parla il Coletti nel suo Catalogo delle cose d’arte, pubblicato nel 1935[44]. Si è detto “dovevano essere” perché purtroppo ora sono così corrosi dai gas di scarico degli autoveicoli, da doverli ritenere irrimediabilmente perduti. La casa si trova infatti in Viale IV Novembre dove il traffico è sempre molto intenso.

Oltre ai tre altari e alle tele citate, avrà forse contribuito ad abbellire la chiesa anche il piccolo quadro conservato nell’attuale sacrestia, che risale alla stessa epoca degli affreschi di cui si è appena parlato. Il dipinto è opera di un modesto seguace del Veronese e raffigura il Riposo in Egitto della Sacra Famiglia.

Che cosa si può dire ancora dell’antica chiesa di Sant’Ambrogio? Nulla più, tranne che alla fine del secolo XVII il suo aspetto era certamente vecchio e cadente, dal momento che oltre mezzo millennio era ormai trascorso dalla sua costruzione. Così, all’affacciarsi del nuovo secolo, gli abitanti di Fiera pensarono che per la loro chiesa era giunto il momento di cedere il posto ad un’altra, più grande e più bella. I meriti della sua lunga storia, segnata da momenti gloriosi e da momenti drammatici, non valsero a risparmiarle la distruzione. Eppure tra le sue pareti annerite dai secoli si celava il senso della sua origine e il fascino misterioso del Medioevo.

Già da lungo tempo quell’umile chiesa era diventata parte integrante del paesaggio, centro focale della borgata, punto di riferimento dei mercanti del Prato e dei barcaioli del Sile. Aveva assorbito lentamente, nel lungo tempo trascorso, l’anima di tanta gente, vissuta attorno alle sue mura e poi scomparsa, per decine di generazioni. Ora anch’essa doveva scomparire. Non si può non provare un certo turbamento al pensiero che tra le sue macerie venne sepolta quella bellezza artistica che tutti noi ammiriamo nelle superstiti chiese medievali, per quanto piccole, per quanto umili esse siano.

 

[…]

 

SVILUPPO DI FIERA NELL’OTTOCENTO

La popolazione di Fiera conobbe certamente, lungo i secoli, un progressivo incremento, secondo un indice legato ovviamente alle varie situazioni storico-ambientali. La costruzione della nuova chiesa all’inizio del XVIII secolo testimonia chiaramente che in quell’epoca la località di Fiera aveva ormai raggiunto una considerevole consistenza. Ma fu nell’Ottocento che si registrò una crescita demografica e uno sviluppo economico e sociale di grande rilievo. Si pensi che la popolazione passò da 950 abitanti, quanti erano nel 1814, ad oltre 2300, presenti alla fine del secolo![45]. Tale fenomeno dev’essere messo in stretto rapporto con il rapido processo di industrializzazione che si verificò in quel periodo a Fiera.

Nella seconda metà dell’Ottocento oltre alla tipica attività portuale, che si manteneva sempre molto intensa, esistevano anche numerose attività a carattere industriale[46]. Erano sorti infatti, in momenti diversi, parecchi opifici: uno stabilimento per la concia delle pelli, tre cartiere, tre brillatoi da risone[47], una birreria, una distilleria per la produzione dell’acquavite, un pastificio, un acetificio, numerosi mulini e un saponificio. La maggior parte di queste fabbriche attingeva ai corsi d’acqua la forza motrice necessaria per il funzionamento delle macchine. Ancor oggi si possono vedere vecchi complessi industriali, più o meno consistenti, costruiti sul Limbraga, sullo Storga o su altri corsi minori, come il Canale del Cristo e il cosiddetto Trozo Lungo.

La buona disponibilità di lavoro che Fiera offriva nell’Ottocento non solo teneva lontano il problema della disoccupazione, ma doveva anzi dare possibilità di impiego a gente di altre località, determinando così un certo processo di immigrazione. Soprattutto da questo fenomeno derivò il notevole aumento della popolazione di Fiera.

 

[…]

 

FIERA NEL NOVECENTO

A giudicare dalla lettera che la popolazione di Fiera inviò al vescovo Longhin nel 1922, si direbbe che in quel tempo la situazione della Parrocchia fosse davvero soddisfacente e ricca di promesse per l’avvenire; ben diversa doveva essere, invece, all’inizio del secolo. Ce lo fa supporre un curioso e significativo episodio. Racconta mons. Sartoretto in una sua pubblicazione che il 27 gennaio 1902 il Vescovo di Treviso, Giuseppe Apollonio, ricevette nel suo studio don Giambattista Parolin, nipote del futuro papa Pio X, allora Patriarca di Venezia. L’aveva fatto chiamare per proporgli la nomina a Parroco di Fiera. Il buon prete pensò bene di non rispondere subito e chiese qualche giorno per riflettere. Quando uscì dal Vescovado, invece di tornare a casa, andò alla stazione ferroviaria e prese il treno per Venezia. Giunto dall’illustre zio, gli parlò della proposta ricevuta, volendo conoscere il suo parere. Il Patriarca, senza esitazione, gli consigliò di ritornare dal Vescovo e di dirgli: “Eccellenza, che peccato ho fatto mai, per meritare una penitenza così grossa?”. E così don Parolin non accettò di diventare Parroco di Fiera, preferendo lasciare “quel peso ad altro sacerdote di spalle più buone” delle sue[48].

Quel nipote di San Pio X giudicherebbe anche adesso un peso insopportabile la cura pastorale della Parrocchia di Fiera? Pensiamo proprio di no. Ora i tempi sono diversi. Molte cose sono cambiate nella mentalità, nel tenore di vita, nelle possibilità tecniche, economiche e culturali, tanto che quel primo Novecento ci sembra appartenere ad un passato ormai completamente tramontato.

 

Testo tratto da Sant’Ambrogio di Fiera, di Paolo Pozzobon, ed. Zoppelli, Treviso 1980

 

Note:

[1] A.A. MICHIELI, Storia di Treviso, Firenze 1958, pag. 7; D. SCOMPARIN, Silea ieri e oggi, Treviso 1978, pag. 16.

[2] Col tempo la via che costeggia il Sile prese il nome di Alzaia, che ha lo stesso significato di Restera. Attualmente vengono usati entrambi i nomi, con la differenza che il termine Restera lo troviamo quasi esclusivamente nel linguaggio popolare.

 [3] G. LIBERALI, Gli Statuti del Comune di Treviso, Venezia 1950-55, Vol. 2°, pag. 243.

[4] Per quanto riguarda il mercato o fiera di S. Michele, che nel corso dei secoli prese l’attuale nome di S. Luca, si veda la pagina “Le Fiere di san Luca.

[5] A. MARCHESAN, Treviso medievale, Treviso 1923, Vol. 2°, pag. 27; A. SARTORETTO, Antichi documenti della Diocesi di Treviso (905-1199), Treviso 1979, pag. 55, nota n. 21; R. BELLIO, Treviso città di pietra, Treviso 1975, pag. 27; C. AGNOLETTI, Treviso e le sue pievi, Treviso 1897, Vol. 1°, pag. 510. Altri studiosi, come Giuseppe LIBERALI (cfr. op. cit., Vol. 3°, pag. 27, nota n. 39) e Giovanni NETTO (cfr. La Marca Trevigiana – 6, in “Ca’ Spineda” n. 26, Treviso, maggio-agosto 1968, pag. 23), sostengono invece che il porto trevigiano citato nel diploma di Berengario non era quello di Fiera, ma quello di Mestre (si tenga presente che in quell’epoca Mestre apparteneva al Comitato di Treviso).

[6] Bibl. Capit. di Treviso: Perg. N. 6, 7 gennaio 1098: “(…) accepi a te, Ada (Adamo),filio Bonifacii de loco Porto, libras octo veronenses (…)”. Perg. N. 10, 8 gennaio 1102: “(…) Adam de Porto et Albiza, jugalles (marito e moglie) (…)”. Perg. N. 128, 13 gennaio 1189: “(…) Johannis de Porto, notarii (…)”. Perg. N. 138, 1189: “Ego Vitalis de Porto sacri imperatoris Federici notarius interfui (fui presente) et ut audivi et scripsi”. Perg. N. 141, 17(?) febbraio 1190: “Albrigetus de Normanno fecit finem et remissionem Johanni de Porto et Graullo fratribus de omni controversia”. Perg. N. 308, 21 dicembre 1208: “(…) Petrus de Portu (…)”.

[7] In questa seconda pergamena la casa risulta situata subter murum, cioè presso le antiche mura della città, quelle di epoca romana.

[8] Carpentieri e calatati: operai specializzati, i primi nella costruzione delle imbarcazioni e i secondi nella loro messa a punto o riparazione.

[9] C. AGNOLETTI, op. cit., Vol. 1°, pag. 115. Del musile si parla anche negli Statuti pubblicati da Giuseppe LIBERALI (v. op. cit., Vol. 1°, pag. 145; Vol. 2°, pag. 268) e nel 2° Vol. dell’opera del MARCHESAN, citata (v. pagg. 30, 31 e 33).

[10] F. STEFANI, Note alla Relazione della sub-commissione di S. Giorgio di Nogaro per la topografia della Venezia nell’età romana, Venezia 1885, pag. 12; A.A. MICHIELI, op. cit., pagg. 14-15; G. NETTO, I quartieri: Fiera, in “Il Gazzettino”, Treviso 3.1.1976, pag. 4.

[11] R. AVOGADRO DEGLI AZZONI, Due carte dell’ottavo secolo scritte in Trivigi, in “Nuova Raccolta d’Opuscoli” (Calogerà), Venezia 1773, Vol. 25°, pag. 26: Lunedì 27 agosto 1179: “(…) actum in Ecclesia Sancti Ambrosii de Portu (…). Comes Manfredus pro amore Dei, ac remedio anime Sophie eius filie, et suorum parentum fecit datam et donationem, ac investituram in manu Presbiteri Vidonis, recipientis vice, et nomine Domus Sancti Joannis de Hospitali de manso uno, qui iacet in Tiverono”, ecc. Trad.: “(Documento) scritto nella Chiesa di Sant’Ambrogio di Porto… Il Conte Manfredo (Collalto) per amore di Dio e a suffragio dell’anima di sua figlia Sofia e dei suoi genitori, ha fatto consegna, donazione e investitura nelle mani del sacerdote Vidone – il quale riceve a nome e per conto dell’Ordine di San Giovanni dell’Ospedale – di un appezzamento di terreno che si trova al Tiveron”. Vedi anche G. BISCARO, Lodovico Marcello e la chiesa commenda di S. Giovanni del Tempio, ora S. Gaetano in Treviso, Venezia 1898, pagg. 4-5. Il Biscaro, sulla base di questo documento del 1179 e di un altro del 1294 di cui si parlerà nella pagina seguente, afferma che nei primi secoli la chiesa di Sant’Ambrogio di Porto apparteneva all’Ordine Gerosolimitano di San Giovanni dell’Ospedale (poi Ordine di Malta), e non a quello dei Templari, come invece taluni sostengono.

[12] A. SARTORETTO, Cronotassi dei Vescovi di Treviso (569-1564), Treviso 1969, pag. 46.

[13] G. LIBERALI, op. cit., Vol. 1°, pag. XVIII, nota n. 23: 28 ottobre 1218: “(…) fecit datam et vendicionem (consegna e vendita) (…) de clausura una iacente in loco qui dicitur territorio porti apud Sanctum Ambrosium”.

[14] R. AVOGADRO DEGLI AZZONI, op. cit. , pagg. 26-27: Il vescovo Tolberto Calza dichiara di ricevere tredici denari veneti grossi da “fratre Wilelmo Borgaresio, Rectori sive Priori Sancti Johannis Jerosolimitani, vel pro Ecclesia et logo Sancti Ambrosii de Portu, pro censu quo dicta Mason sive hospitale tenetur dare (…) dicto Episcopatui”. Cfr. anche: G. BISCARO, op. cit., pag. 5; C. AGNOLETTI, op. cit., Vol. 1°, pag. 510; A. SARTORETTO, op. cit., pag. 70.

[15] G. LIBERALI, op. cit., Vol. 1°, pag. XLV: “(…) fu ampliado le difese cum una fossa dal Sil apresso S.S. Quaranta fino a S. Ambruoso de porto, sopra el Sil, cum lo arzere alto, ben serchado (irrobustito) de asse e spinade (…)”.

[16] A. MARCHESAN, op. cit., Vol. 2°, pagg. 411-420.

[17] G. LIBERALI, La dominazione carrarese in Treviso, Padova 1935, pag. 9, nota n. 1, e pag. 10; G. NETTO, Nel ‘300 a Treviso – Vita cittadina vista nell’attività della “scuola” Santa Maria dei Battuti e del suo Ospedale, Treviso 1976, pag. 179, nota n. 73: Daniele Chinazzo, cronista del Trecento, “riferisce che la torre alla Fiera fu cominciata il 19 agosto 1380 con un grossissimo pe’ de tore [piede di torre], tuto retondo; possiamo immaginarla simile a quella contemporanea di Casale tuttora esistente: si utilizzarono tra l’altro, scrive il cronista, anche le pietre della chiesa di Sant’Ambrogio!”. Altri cenni alla torre di Fiera si possono trovare in C. AGNOLETTI, op. cit., Vol. 1°, pag. 511, e in G.B. VERCI, Storia della Marca Trevigiana e Veronese, Venezia 1790, Tomo XVI, pag. 6.

[18] G. LIBERALI, La dominazione carrarese…, cit., pag. 20, nota n. 3: 22 dic. 1394: Duca1e al podestà Lud. Morosini. “Audivimus et intelleximus informationem quam nobis scripsisti de campana olim tempore domini Francisci de Carraria senioris accepta de ecclesia Sancti Ambrosii terre nostre Tarvisine et de mandato illius domini Francisci posita in nostro castro Tarvisino”, ecc.

[19] G. BISCARO, op. cit., pagg. 5-7.

[20] La Commenda è una particolare istituzione religiosa, fondata sull’assegnazione di un beneficio ecclesiastico da parte della Chiesa o di un ordine cavalleresco, come quello di Malta. Un tempo molto diffuse, ora le commende sono quasi totalmente scomparse.

[21] C. AGNOLETTI, op. cit., pag. 510.

[22] Al Museo Risorgimentale di Treviso è conservato il documento originale che ordina la requisizione di tutti i beni della Religione di Malta, esistenti nel territorio trevigiano. Il documento porta la data dell’8 settembre 1797 e reca il visto autografo di Napoleone.

[23] G. BISCARO, op. cit., pag. 9 e segg.

[24] L’assedio di Padova (città appartenente alla Repubblica Veneta fin dal 1405) fu una delle conseguenze della gravissima sconfitta subita dai Veneziani nella battaglia di Agnadello (Cremona) il 14 maggio 1509.

[25] Corrispondenti a 865 metri; infatti il passo veneto era lungo m 1,73.

[26] Il nome Tolpada deriva dai pali di rovere, detti tolpi, di cui era formata la palizzata che sbarrava parzialmente il corso del Sile per controllare, mediante una grossa catena mobile, il passaggio delle imbarcazioni che entravano o uscivano dalla città.

[27] G. BISCARO, op. cit., pag. 6.

[28] Arch. Vesc. di Treviso, Visite Pastorali Antiche, Busta n. 5, Fiera: “(…) Episcopus (…) visitaturus Ecclesiam Sancti Ambrosij nundinarum (…) accessit ad altare Sacratissimi Corporis D. N. J. Christi, quo reverenter adorato, invenit illud servari in quodam vasculo ligneo, involuto in quodam linteo serico, sub diligenti custodia (…)”. OO.SS. “in loco sinistro altaris predicti in vasculis rammeis in capsula iuxta formam suarum Constitutionum, et in aliis de banda seu staneis pro deferendo ea ad infirmos (…)”. Trad.: “Il Vescovo…, in visita alla chiesa di Sant’Ambrogio delle Fiere…, si portò all’altare del SS.mo Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo; dopo averlo adorato con devozione, lo trovò conservato in uno speciale vaso di legno, ricoperto da un velo di seta e custodito con cura”. Trovò inoltre che gli Oli Santi erano conservati “in un luogo posto a sinistra dell’altare predetto, in vasetti di rame contenuti in una piccola cassetta, secondo le norme delle proprie Costituzioni, e in altri vasetti in lamina di ferro o di stagno, adatti per portarli agli infermi”. Cfr. anche G. LIBERALI, La diocesi delle visite pastorali, Treviso 1977, Parte seconda, pagg. 418-419. Dalle prime parole della relazione sulla visita pastorale risulta che, nella denominazione della chiesa, l’antica espressione de Portu è stata sostituita dall’espressione nundinarum. Ciò significa che nel Cinquecento, e certamente anche prima, le Fiere (nundinae) avevano acquistato per la località un’importanza superiore a quella del porto.

[29] Con il termine curata viene indicata la chiesa con diritto di esercitare la cura d’anime, mediante l’amministrazione del Battesimo e di altri sacramenti.

[30] L’uso di questo termine e il fatto che la chiesa possedesse il fonte battesimale fanno ritenere che nel 1568 Fiera fosse già parrocchia, anche se il prete non aveva ancora il titolo di parroco, ma quello di cappellano. Il “rettore” ufficiale della chiesa era infatti il cavalier Rimondo che risiedeva presso la Commenda. Il sacerdote Giuseppe de Camillis doveva essere quindi il suo vicario.

[31] C. AGNOLETTI, op. cit., Vol. 1°, pag. 513.

[32] G. LIBERALI, La diocesi delle visite pastorali, cit., Parte prima, Documento CXIII, pagg. 264-266; R. BELLIO, op. cit., pag. 74; T. BASSO – A. CASON, Treviso ritrovata, Treviso 1977, pag. 68.

[33] R. BELLIO, op. cit., pag. 107.

[34] G. BISCARO, op. cit., pag. 15.

[35] Arch. Vesc. di Treviso, Busta n. 174/a, Fiera: “Dilectae nobis in Christo sorori Angelae prioressae sororum habitantium in Ecclesia Sancti Ambrosii supra pratum prope Tarvisium, ubi nundinae celebrantur, salutem in Domino” (dagli appunti di Luigi Zangrando, archivista vescovile e segretario di mons. Longhin).

[36] G. LIBERALI, Lo stato personale del clero diocesano nel secolo XVI, Treviso 1975, pag. 128.

[37] C. AGNOLETTI, op. cit., Vol. 1°, pag. 511; IDEM, Intorno alla dominicalità delle decime in diocesi di Treviso, Treviso 1891, pag. 19.

[38] Arch. Vesc. di Treviso, Busta n. 174/a, Fiera.

[39] Il gastaldo era il capo di una corporazione di lavoratori che esercitavano lo stesso mestiere o arte.

[40] Arch. Parr. di Silea: Miscellanea di vari manoscritti della prima metà dell’Ottocento, contenenti le iscrizioni che in quell’epoca si trovavano in alcune chiese del circondario, fra cui quella di Fiera.

[41] Colmello è un termine dell’antica lingua veneta, che comunemente si usava con il significato di piccolo borgo.

[42] D. SCOMPARIN, op. cit., pag. 25. Villa Pendula viene nominata anche in una bolla di papa Alessandro III, scritta l’11 febbraio 1171 e indirizzata al Capitolo della Cattedrale di Treviso (cfr. A. SARTORETTO, Antichi documenti…, cit., pag. 89).

[43] L’altare di S. Rocco è citato nelle visite pastorali del 1601, del 1643, del 1667 e del 1680. Assieme a S. Sebastiano, S. Rocco veniva invocato come protettore contro la peste.

[44] L. COLETTI, Catalogo delle cose d’arte e di antichità di Treviso, Roma 1935, pag. 128.

[45] Arch. Parr. di Fiera; C. AGNOLETTI, Treviso e le sue pievi, cit., Vol. 1°, pag. 513.

[46] G.B. A. SEMENZI, op. cit., pag. 210; A. SANTALENA, Guida di Treviso, Treviso 1894, pagg. 190-191.

[47] Il brillatoio è lo stabilimento dove viene lavorato il riso greggio, detto risone.

[48] A. SARTORETTO, Mons. G. Battista Parolin degno nipote di S. Pio X, Vedelago 1958, pag. 37. Nel libro non si fa il nome di Fiera per un apprezzabile senso di discrezione; ma l’autore mi ha assicurato che si trattava proprio di questa Parrocchia. Ora, in un lavoro tutto dedicato a Fiera, non sembra più indiscreto fare questa piccola rivelazione.

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